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di Paolo Ribet

«La mia parola non torna a me a vuoto»

Nella storia della prima evangelizzazione, subito dopo il 1848, c’è un fatto che mi è sempre rimasto impresso: i Valdesi seppero intraprendere l’opera di predicazione dell’Evangelo non solo con un’energia fino ad allora insospettabile, ma anche con profonda chiarezza teologica. Infatti, il Sinodo del 1855 votò un ordine del giorno che può portare ancora oggi un insegnamento profondo. In esso si affermava: «Il Sinodo, desiderando prevenire ogni malinteso sul carattere dell’opera di evangelizzazione fatta dalla Chiesa valdese, dichiara all’unanimità: il solo scopo della Chiesa valdese nell’annuncio del Vangelo fuori dal suo ambito è di obbedire all’ordine del Signore: “Predicate il Vangelo a ogni creatura” e di condurre le anime alla conoscenza e all’obbedienza di Gesù Cristo. Di conseguenza essa non ha alcuna pretesa d’imporre loro una forma ecclesiastica».

Gli storici ci insegnano che questo pronunciamento fu un esito delle polemiche e delle scissioni dell’anno precedente; ma questo non toglie nulla al valore della dichiarazione che legge la predicazione svincolata da interessi e da interpretazioni di parte. Al centro della vita evangelica, infatti, sta la parola predicata, non la Chiesa. La Parola agisce per la sua potenza e compito nostro è solo quello di diventarne seminatori. La Parola agisce per la sua potenza: credo che ogni predicatore – e forse ogni credente – ne abbia fatto l’esperienza almeno una volta nella vita, vedendo spuntare il fiore della fede in modo assolutamente spontaneo, al di là di ogni attesa. Su un piano opposto, vediamo molte chiese che pianificano in modo quasi aziendalistico la “produzione” di tot conversioni all’anno. Ma l’affermazione del profeta Isaia ci lancia verso una gioiosa predicazione, libera da ogni affanno di successo, nella certezza che “la Parola non torna al Signore a vuoto”.