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di Giorgio Tourn

Massimo FIRPO, La presa di potere dell’Inquisizione romana 1550-1553. 259 pp., Roma-Bari, Laterza
Massimo FIRPO, La presa di potere dell’Inquisizione romana

Massimo Firpo è uno studioso da considerarsi ormai fra le autorità nel campo degli studi sul mondo religioso italiano del Cinquecento; a lui si devono studi fondamentali sul cardinal Morone e l’edizione critica dei processi a lui intentati dall’Inquisizione e volumi originali sulle presenze dell’eterodossia religiosa nella pittura italiana del secolo.

Nel nostro saggio il frutto di queste decennali ricerche viene offerto in forma piana, di gradevole lettura al lettore interessato, che ha la piacevole sensazione di essere accompagnato da una guida di eccezionale competenza in un uno di quei sontuosi saloni di rappresentanza dove si tengono  incontri mondani, e muoversi fra la folla di personaggi illustri e sconosciuti. Firpo li conosce tutti, ne conosce l’animo e le trame segrete, e le illustra sottovoce. Come sempre accade in questi incontri, il piacere di muoversi nella folla è legato alla conoscenza dei personaggi, il fascino di questo mondo curiale della Roma papale in cui interessi, odi, ambizioni si intrecciano e si scontrano resta più forte di ogni romanzo.

La chiave di lettura del saggio è offerta in modo evidente dalla copertina; il titolo è esplicito: l’Inquisizione prende il potere nella chiesa, il sottotitolo ne fissa le date, l’immagine del cardinale Pole mette in primo piano uno dei protagonisti della vicenda, quello che ha perso la partita, l’altro, che l’ha vinta, il Carafa, pur onnipresente, resta, come è normale in questi casi, invisibile.

La partita prende avvio nel 1549 con la morte di Paolo III, il papa Farnese (immortalato da Tiziano, accartocciato sulla poltrona); ha segnato una svolta nella politica papale col rinnovare il sacro collegio, con l’introduzione dell’élite culturale e teologica del tempo, con l’introdurre l’Inquisizione, approvare la Compagnia di Gesù e avviare il concilio a Trento.

Il conclave che deve provvedere alla sua successione vede scontrarsi le due figure già menzionate: il Pole, esponente della corrente evangelico riformatrice e il Carafa, anima dell’inquisizione; non è propriamente uno scontro perché Pole non si batte per la tiara, anche se è quasi predestinato ad averla ma è Carafa che si batte per impedire che l’ottenga; riuscirà nel suo intento mettendo in  dubbio l’ortodossia del cardinale inglese.

Il nuovo Papa Giulio III, personalità debole, scarsamente interessato ai problemi teologici, cercherà di opporsi alla marcia della macchina inquisitoria, ma potrà solo limitarne l’ingerenza e con la sua morte Carafa, diventato Paolo IV, avvierà l’operazione di pulizia confessionale della chiesa.

L’interesse della ricerca di Firpo è molteplice perché getta luce su alcune realtà cruciali per la coscienza religiosa italiana. La prima su cui getta luce è naturalmente il cattolicesimo romano in un  periodo cruciale della sua storia, quello che vede la nascita della modernità. Istituzione politico religiosa, molto più che chiesa, fondamentale nella vita del nostro paese, appare qui realtà estremamente composita, con forti tensioni interne, giochi di interessi personali e di potere, equilibrio instabile fra i vecchi ordini religiosi, i gesuiti, il collegio cardinalizio e gli interessi degli stati italiani. L’idea di un cattolicesimo unito e solidale nella fede e nell’identità non corrisponde in nulla alla realtà per quanto riguarda il Cinquecento.

Si tratta di una galassia di interessi e forze divergenti, il cui elemento unitario è dato dal papato. L’ipotesi conciliare del XV secolo, definitivamente tramontata e sconfitta a Trento, la figura del pontefice diventa il cardine del sistema. Il cattolicesimo post tridentino è papale, il 1870 non farà che sancire quello che già allora molti auspicavano.

Trento segna però nell’opinione cattolica il momento della riforma della chiesa, la vera, perché “la falsa” (per usare il titolo di un celebre saggio di Congar) è l’altra, quella protestante. Di conseguenza, dopo gli studi di Jedin, si deve tralasciare, come inadeguato, il concetto di Controriforma. E' questo il problema storiografico che Firpo puntualizza nella sua premessa. Vi fu certo negli anni ’45- ’65 del secolo un movimento di riforma di carattere disciplinare, morale, spirituale ma a gestirlo e svuotarlo di prospettive fu lo spirito inquisitorio vincente con Paolo IV.

E questa controriforma ebbe molti volti, per quel che concerne l’Italia «il nemico da battere non fu la Riforma protestante ma ogni riforma cattolica che intendesse modificare qualcosa del magistero dottrinale e della gerarchia istituzionale». A costituire problema per quella classe dirigente non fu il dramma della giustificazione per grazia di Lutero, ma il controllo dell’ortodossia interna, cioè dell’ideologia strumento del potere. Quella fu la vera Controriforma: modernizzare (i gesuiti), o aggiornare (i decreti conciliari) l’impalcatura dell’istituzione per tutelarla dal pericolo della riflessione teologica.

Tutto questo nel Cinquecento, il lettore, si dirà, vive oggi. Se rileggere la storia non è sfogliare un volume, ma osservare il flusso delle esperienze vissute nel tempo, quello che è stato vissuto allora permane e sotto altra veste si riscontra nel presente. Senza voler riaprire il dibattito sulla mancata Riforma in Italia, un dato permane incontestabile: l’Italia odierna, cristiana e agnostica (non diciamo “laica”) è figlia di quella cinquecentesca, e permane segnata in modo irreversibile da quegli anni 1550-1553. Rileggere quelle vicende non significa fare un’operazione di archeologia ma acquisite strumenti per leggere l’oggi.

18 giugno 2014