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 “Io ringrazio colui che mi ha reso forte,
Cristo Gesù, nostro Signore,
per avermi stimato degno della sua fiducia

I Timoteo 1,12

 

Servizio e collegialità

Chiunque si avvicini a una nostra chiesa nota che, accanto alla figura pastorale, ci sono delle figure laiche che portano una specifica responsabilità e che danno consistenza a quell’idea di collegialità e diversificazione del ministero ecclesiastico che contraddistingue la tradizione protestante.

“Noi facciamo le cose insieme”, siamo abituati a dire. Lo sviluppo della nostra teologia e liturgia, le linee etiche da condividere, la responsabilità sociale e politica, la distribuzione delle risorse che raccogliamo tramite le donazioni, tutto viene deciso in modo collegiale.

La nostra, inoltre, è una collegialità ordinata e non disordinata. Questo ordine proviene dalle nostre discipline, approvate collegialmente, frutto di un’esperienza e di una “mente” che affondano le loro radici nei secoli. I ruoli non devono essere confusi ma definiti, la pari dignità e il rispetto reciproco sono riconosciuti e praticati – certo, non in modo perfetto, come abbiamo dovuto verificare anche in questo Sinodo.

Vorrei esprimere perciò una parola di gratitudine a Dio per il servizio che tante sorelle e tanti fratelli continuano a donare alla missione della nostra Chiesa e per il sostegno e la comprensione che ricevono dalle loro famiglie: considero tutto ciò un miracolo con cui il Signore ci benedice.

Vorrei unire tutte queste persone nel ringraziamento che rivolgo a chi lascia il servizio in Tavola dopo tanti anni: Aldo Lausarot.

E grazie a Laura Turchi che inizia oggi, per volontà del Sinodo, questo servizio.

 

Il futuro della Riforma

Quest’anno il Sinodo si è svolto nel corso della memoria dei 500 anni della Riforma: un anniversario che non sta passando inosservato neppure in Italia. Certo, non coinvolge le masse ma quella parte del nostro paese più sensibile culturalmente e religiosamente: quest’Italia si è accorta di Lutero, e non se ne è spaventata, ce lo ha ricordato Paolo Naso nella serata pubblica di lunedì.

Il repertorio delle pubblicazioni ma anche del calendario delle celebrazioni, dei convegni accademici, delle iniziative di base, persino alcuni atti istituzionali come la dedica di vie a Martin Lutero è sorprendente. In un paese che indulge all’analfabetismo religioso come l’Italia non è un risultato di poco conto.

Un secondo elemento che possiamo ricavare dall’analisi delle iniziative alle nostre spalle e quelle annunciate è di ordine qualitativo: non soltanto si è parlato tanto della Riforma ma se ne è parlato meglio, non addebitandole più tutti i mali della società moderna – l’inizio della fine del regime di cristianità, la causa dei mali della secolarizzazione, la culla dell’individualismo e del relativismo etico… – ma dando spazio anche a nuove e più positive interpretazioni.

Merito soprattutto della chiesa cattolica, e di papa Francesco in particolare, che ha assunto la “sfida” delle celebrazioni, accettando di partecipare e contribuire attivamente a vari eventi e soprattutto deponendo la tesi dello scisma e della divisione per confrontarsi sulle prospettive del cammino comune anche con le chiese figlie della Riforma.

Una prospettiva determinata non solo dalle urgenze della storia, dalle sofferenze dell’umanità – che già sarebbero motivi sufficienti per un cammino comune – ma anche da un nuovo registro spirituale che emerge costantemente (vedi la lettera di papa Francesco e l’intervento di mons. Malvestiti a nome dei vescovi italiani) e che il presidente del Sinodo, past. Peter Ciaccio, ha sintetizzato notando che «siamo passati dal pregare insieme per l’unità dei cristiani, al pregare gli uni per gli altri». Un passaggio spirituale non da poco.

Tutto ciò disegna un nuovo orizzonte della nostra responsabilità di testimonianza – come ho già detto lunedì sera – un orizzonte ecumenico e internazionale/interculturale.

Ecumenico perché ormai non ci possiamo più concepire al di fuori di un tale contesto: sono i protestanti che hanno “inventato” l’ecumenismo già dalla fine dell’Ottocento e oggi siamo consapevoli che non possiamo vivere e testimoniare la fede cristiana senza tener conto che non ne siamo gli unici depositari. Ciò ci consente di valorizzare quei doni di Dio che sono presenti anche nelle altre chiese, promuovendo nuove collaborazioni, la fraternità e anche la correzione reciproca costruttiva.

Internazionale/interculturale perché il cristianesimo del sud del mondo è cresciuto, è diventato adulto, vuole essere ascoltato e vuole contribuire a scrivere l’agenda delle priorità senza subirla dai cristiani del nord del mondo. E’ un cambiamento epocale per tutti noi.

Non solo: nord e sud ormai convivono nelle stesse città del nord del mondo, non più solo nelle grandi assemblee ecclesiastiche o negli organismi ecumenici, ma nella nostra quotidianità, civile e religiosa. Il che rende molto più complesso e urgente questo riequilibrio interculturale.

Da qui l’importanza del percorso Essere Chiesa Insieme, che è – lo abbiamo detto tante volte – più una dinamica che un traguardo, perché ci consente di provare, sperimentare, valorizzare le esperienze di questi anni per produrre una nuova realtà, possibilmente non conflittuale o non generatrice di future conflittualità.

Ne hanno bisogno le nostre chiese, anzi tutte le chiese, ma ne ha bisogno anche la società che deve trovare gli strumenti per integrare culture ancora più diverse di quelle che pur ci sono tra cristiani di diverse provenienze geografiche, si tratta di integrare diverse culture, religioni. Non è facile, non è facile…

Ma non provarci è peggio, molto peggio, pensare che sia più semplice ed efficace dire: “a casa nostra si fa come diciamo noi” beh, è illudere a se stessi e agli altri. Perché non è il richiamo al principio di autorità che risolve le situazioni complesse.

 

I motori dello sviluppo economico

Una complessità resa ancora più problematica dalle tensioni internazionali.

Dieci anni fa si accendevano segnali di una grave crisi economico-finanziaria mondiale. Al crac di alcuni fondi immobiliari americani (9 agosto 2007), qualche mese dopo seguì l'insolvenza di Finanziarie e Banche americane di grande rilievo: iniziava quella Grande Crisi che sta ridisegnando equilibri (forse sarebbe meglio dire disequilibri) mondiali, riducendo le protezioni sociali nei paesi del primo mondo e generando, insieme alle guerre alle porte dell’Europa, quel flusso epocale di rifugiati e migranti “irregolari/sans papier” che ben conosciamo – prima della Grande Crisi le porte dell’Europa erano aperte a flussi costanti, anche se contingentati, di immigrazione dal sud del mondo.

Insomma, è come se si fossero rotti i tradizionali motori dello sviluppo economico dell’Occidente, sì, ora sembra che siano ripartiti, ma non funzionano più come una volta, per cui è prevedibile che si consoliderà l’area del lavoro precario e meno pagato, la disoccupazione giovanile, il blocco o la drastica limitazione di flussi regolati di lavoratori immigrati.

Dunque, abbiamo di fronte a noi un orizzonte difficile che continuerà a richiedere un intervento impegnativo per recare soccorso, sollievo, cura, e insieme ricerca di equità e giustizia. Un impegno che continuerà a vedere in prima linea la nostra diaconia ma anche le chiese, soprattutto per contrastare le tensioni e le conflittualità sociali e – come ha dichiarato questo Sinodo – per contrastare l’odio a cui il terrorismo da una parte e l’estremismo ideologico dall’altra ci vorrebbero spingere.

 “Nella calma e nella fiducia sarà la vostra forza”, dice Isaia 30,15.

E in II Timoteo 1,7 leggiamo: “Dio infatti ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d'amore e di autocontrollo”.

Il futuro è nelle mani di Dio – bisogna ricordarlo sempre – ma Dio ci ha chiamati a essere suoi testimoni e collaboratori “stimandoci degni della sua fiducia” (I Timoteo 1,12).

Per questo noi siamo impegnati a percorrere – insieme a tanti altri, grazie al cielo – la strada della solidarietà e del rispetto reciproco, della coesistenza e del dialogo fra culture, religioni diverse, “nell’impresa di tessere e ritessere la pace per l’unica famiglia di Dio”, come ci ha detto mons. Malvestiti.

La paura non deve vincere.

Certamente non può vincere i cristiani.

Ricordiamo che a Lutero viene attribuita un'immagine divenuta famosa: “Anche se sapessi che domani il mondo finisse, pianterei lo stesso nel mio giardino un albero di mele”.

Che senso ha piantare un melo quando il mondo ribolle? Ha senso, perché anche un piccolo e semplice gesto simbolico può diventare profetico e mobilitare energie impensabili.

Che il Signore ci benedica e ci guardi.

Torre Pellice, 25 agosto 2017